sabato 9 aprile 2011

M'importa di te.


Maria non si disturba della mia voce affumicata, dice che le piace, che la vuole sentire mentre ci diamo i baci. Chiedimi qualcosa e io ti rispondo, le dico. Lei ride, dice: "Come mi chiamo?", e io rispondo, lei insiste: "Ripeti il nome, ripeti il nome", e io le do baci e la chiamo per nome e così risuccede l'ammore e lei fa i colpi e i singhiozzi con tutto il corpo, tanto le piace come io la chiamo per nome. Maria dev'essere un nome magico, lei passa subito dai baci al sonno, il tempo che mi ritorna indietro il piscitiello. Non gli dico più: " Arò si' gghiuto", adesso lo so. Mentre finisco di dire ancora un poco il suo nome, lei tira aria nel naso, inghiotte e russa piano piano.

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Il pomeriggio è libero, dico a Maria di andare insieme a piedi a Mergellina dove c'è il molo allungato sul mare e in fondo al molo c'è un faro e la scogliera, dove uno può stare all'aperto ma senza la città intorno. Voglio andare lì perchè le case, le strade smettono tutt'insieme e d'improvviso non c'è più Napoli. Il largo del mare, il suo sconquasso la nascondono, basta che uno s'incammina sul molo. Maria mette il cappotto, la sciarpa e già sta sulla porta, la sua prontezza è una carezza nelle ossa. Sul lungomare le compro il tarallo sugna e pepe, il vento ci porta via il nostro caldo, noi lo rimettiamo camminando svelti, poca gente s'arrischia al passeggio, dei soldati americani con le scarpe di gomma vanno di corsa, la portaerei nel golfo è l'unica nave che non si muove sopra il mare bianco stracciato sulla cresta delle onde. Maria guarda i soldati americani, dice: "E'una bella razza, ma corrono, corrono pe' senza niente, senza un motivo. Prima di metterci a correre, a noi ci deve sbattere fuori di casa un terremoto". Marì, corriamo pure noi. " Noò, " fa lei e con il braccio mi riporta indietro al suo passo.

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Babbo rientra per cena, trova il vino e prima di versarsi da bere spiega, cerca l'italiano: "Finchè è stata viva ho fatto la guardia alla sua vita, l'ho scippata alla morte giorno e notte", beve un sorso e dice secco: "Mò nun pozzo fa' niente cchiù". Maria fa si con la testa, io mi contento che lui cerca pace, ha accompagnato mamma fino alla fine dei respiri, di più non è voluto andare, nemmeno fino al cimitero. Si versa un altro bicchiere, chiede se beviamo pure noi, Maria dice sì, io no. Lei tira su dal bicchiere qualche goccia d'assaggio, babbo le dice: "Chillo nun è 'nu surso, è 'nu respiro, tu accussì sfotti 'o vino", Maria rimedia con un colpo di polso. Mangiamo piano, si sentono i rumori delle altre case, babbo beve, si passa la mano sulla faccia, si stropiccia la fronte, "Grazie della cena", si alza, ci dice buonanotte. A letto ci teniamo vicini, non abbracciati. Dice che le scorre il sangue, ma non è una ferita, è un ricambio che tengono le donne. Ha bevuto il vino per rimettersi in sangue. Prima di dormire mi dice la sua frase preziosa: "M'importa di te". Come al solito non so che restituire.

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Poi usciamo salutando, non risponde, legge e muove le labbra per seguire le parole. Maria e io sappiamo leggere meglio di lui e questa è un'ingiustizia. Noi ultimi arrivati solo perchè abbiamo avuto la comodità di studiare, ne sappiamo più di un uomo adulto che si è fatto valere a forza di braccia per tutta la vita e non ci ha fatto desiderare il necessario e non è mancato di rispetto a sua moglie. Chiudo la porta di casa uscendo dietro Maria e mi capacito di essere onorato di babbo che per leggere deve battere le labbra una contro l'altra e agguantare in età avanzata un poco d'istruzione. Marì, dobbiamo comprare la pizza più buona di Napoli. "Per meno di questo neanche usciamo, almeno la più buona di Napoli, poi vediamo se è pure la più buona del mondo." Maria, le dico, m'importa di te. "Questo lo dico io, tu dici un'altra cosa," risponde e mi lascia scimunito un'altra volta.

Gigino 'o fetente sta facendo pizze a tutta Napoli, si è fatta la folla davanti al forno. Fa freddo e lui sta a braccia nude a sbattere la pasta a aschiaffi e giravolte mentre distrattamente si gira verso il fuoco e al volo con la pala rigira dieci pizze in due secondi. Per chiamare la gente fa le sue grida: "Song 'e ppizze 'e sott'o Vesuvio, nc'è scurruta a'lava 'e ll'uoglio", per dire che ci mette tanto olio, uoglio, quanta lava scorre dal Vesuvio. La gente aspetta così più volentieri e si fa venire appetito con le parole esagerate di don Gigino. Lo chiamano 'o fetente perchè porta la barba e uno poi trova qualche pelo nero nella pizza. Porta la barba perchè tiene la faccia tagliata. Mi metto da una parte sul marciapiede, Maria va sotto al bancone e si fa sentire forte: "Don Gigì, tre margherite vostre che ci dobbiamo arricreare", gli grida in mezzo alla folla, cacciando fuori l'aria guappa e sciantosa. "Nenne', i' m'arricreo quanno te veco," risponde don Gigino al bancone, nero di barba, occhi e capelli e imbiancato a farina meglio di un'alice. E ci sbriga prima degli altri, ci consegna le tre margherite una sopra l'altra con la carta da olio in mezzo e strilla per farsi sentire da tutti quanti: "Facite passa' annanze 'a cchiù bella guagliona 'e Montedidio", e Maria si fa strada e se le piglia dalle mani di don Gigino che le dice pure che le può pagare un'altra volta: "Cheste m'e ppave ll'anno che vene". Maria dritta e sfrontata per l'onore, se ne viene da me, mi mette il braccio sotto e ce ne saliamo a Montedidio con gli occhi della gente sulla schiena. Com'è importante stare in a due, maschio e femmina, per questa città.
Chi sta solo è meno di uno.