venerdì 29 ottobre 2010

ora il tempo





e' un signore distratto e' un bambino che dorme.
Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano.
Cosa importa se sono caduto se sono lontano.
Perche' domani sara' un giorno lungo e senza parole.
Perche' domani sara' un giorno incerto di nuvole e sole.

martedì 20 luglio 2010

Era d'estate



Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.

Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.



Manfredi Borsellino


(Estratto dal libro “Era d’estate", curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi e pubblicato per gentile concessione dell’editore Pietro Vittorietti)

giovedì 24 giugno 2010

Trago Amargo, questione di prospettiva.



Angolo inverso:




Arrímese al fogón, viejita, aquí a mi lado
y ensille un cimarrón para que dure largo;
atráquele esa astilla, que el fuego se ha apagado,
revuelva aquellas brasas y cebe bien amargo;
alcance esa guitarra de cuerdas empolvadas,
que tantas veces ella besó su diapasón,
y arránquele esa cinta, donde la desalmada
bordó, con sus engaños, mi gaucho corazón.

¿Usted lo recuerda, madrecita santa,
cómo la quería, cómo yo la amé?
¡Que he dado mi vida, mi daga y mi manta!...
Y, sin embargo, madre, la ingrata se fue...
Apague esa leña, que mi vista daña...
Los ojos me lloran... Yo no sé por qué...
Pues quiero olvidarla, ahogándome en caña,
y quiero estar cerca, cerquita de usted...

Después, cuando la noche envuelva los bañados
y se oiga, allá, a lo lejos, el toque de oración,
inclínese a la Virgen de los Desamparados
y a mi pobre guitarra colóquele un crespón...


Musica: Rafael Iriarte
Letras: Julio Navarrine

mercoledì 5 maggio 2010

Scajoleo, er mejo ministro der Colosseo




Pe' arivacce qui a Roma ho fatto l'autostop
e 'n questa casa è già m'ber pezzo che ce sto...
Ma pure da ministro, mica so cambiato:
io so' Scajoleo, er mejo der Colosseo!

Io fermo nun ce sto, proprio nun me va!
Se domani qui sarò, oggi chi lo sa?
Forse un pò me dimetterò e me ne andrò da'sta città, già...
E poi laggiù tanta scena farò, ogni gatta che me vedrà, dirà:
"ma che ber ministrone, che simpaticone, quello è Scajoleo
e ci ha una casa vista Colosseo!"

Si cambio so' guai, sto bene dove sto...
Io nun confesso mai, catene (per ora) nun ce n'ho!
Confessa tu si voi, io so andove finirai
in Cina, in Perù o a Timbuctù! Ma nun me beccherai vedrai!
Chi tante storie fa, a pregà nun sto!
Ogni casa che me va... con un gesto c'ho!
Penso sempre che l'avi miei tra ruderi e mausolei
sapevano già fasse rispettà e considerà da nobbili e plebei!

Se tanto me da tanto, godo e me ne vanto
d'esse Scajoleo er mejo der Coloseo!
C'avrò er busto ar pincio e ar museo... eh già!


(aho! ma s'è saputo chi è 'sto cojone che m'ha pagato l'ammezzato?)

martedì 20 aprile 2010

Duerme

Una ninna nanna per chi fa fatica a prendere sonno.
Buon ascolto, e buon riposo






Se filtra la luz de la luna
por los encajes de la cortina,
y un beso de amor se ilumina
sobre tu cuna pintada de azul.

Yo quiero que cierres los ojos
mientras hablamos del hada bella,
por quien, amorosa, una estrella,
volando a su frente del cielo bajó.

Duerme,
como el hada
que en el bosque la noche encerró;

Duerme
sobre el trébol
que en el campo su alfombra tendió;

Duerme
que los lobos
a tus sueños jamás llegarán...

Duerme,
que la estrella,
a tu lado, también dormirá.

La flor es una mariposa
que sobre un árbol quedó dormida.
Y el cielo una lona tendida
donde camina la luna y el sol.

En cambio la noche es un día,
que va vistiendo trajes de sombras
y el pasto del campo una alfombra,
que limpian la lluvia, los vientos y el sol.

Duerme,
que la estrella,
a tu lado también dormirá.



Filtra la luce della luna
attraverso i pizzi della tenda
e un bacio d'amore s'illumina
sulla tua culla dipinta d'azzurro.

Voglio che chiuda i tuoi occhi
mentre parliamo della fata bella
sulla cui fronte, amorosa, si posò
volando, del cielo, una stella.

Dormi,
come la fata
che la notte nel bosco rinchiuse;

Dormi,
sul trifoglio
che nel campo distese il suo tappeto.

Dormi,
che i lupi
non raggiungeranno mai i tuoi sogni...

Dormi,
che la stella,
al tuo fianco, anche lei dormirà.

Il fiore è una farfalla
che sopra un albero s'addormentò.
E il cielo è un telo teso
dove camminano la luna ed il sole.

Invece la notte è un giorno,
che continua a vestire abiti d'ombre
e l'erba del campo un tappeto
lavato dalla pioggia, dai venti e dal sol.

Dormi,
che la stella,
al tuo fianco anche lei dormirà.





Homero Manzi

sabato 3 aprile 2010

Il bene, il male


"Io sono il rappresentante del male, e voi sapete che, senza il male, il bene ha un problema di identità."

Cirino Pomicino

giovedì 18 marzo 2010

La morte degli innamorati.


Lui sapeva della morte
solo quello che tutti sanno,
che ti prende, e in una muta dimora
ti spinge.
Così quando lei, da lui,
no, non strappata,
ma lievemente sciolta dai suoi occhi,
scivolò ad ombre ignote,
e lui capì che laggiù,
il suo sorriso di fanciulla
era come una luna a far del bene,
allora i morti a lui furono noti,
quasi per lei di loro con ognuno
fosse parente
e lasciò parlare gli altri
senza prestarvi fede
e quella terra bellissima chiamò
ed ameno luogo,
e la tastò
per giungere ai suoi piedi.


Trattasi della mia ricostruzione di una poesia letta tantissimi anni fa in un libro di R. M. Rilke, annotata su un foglietto, poi andato smarrito. L'ho cercata tanto, ma nemmeno S. Google ci ha potuto. Mi piacerebbe che qualcuno potesse aiutarmi a ritrovarla.

Intervista a Mariano Chicho Frumboli, di Milena Plebs.

E' tutto vero.

Chico ha davvero rilasciato l’intervista che vi accingete a leggere.

Voi stessi, con i vostri occhi, potrete leggerla in lingua originale, qui.

A qualcuno sembrerà sconvolgente. Qualcun altro ne resterà turbato. Molti se ne rallegreranno, altri godranno di una rivincita che (detto inter nos) non credo sia la loro.

Io, nel mio piccolissimo, me ne compiaccio, come chi si compiace di un cerchio che si chiuda. Me ne rassicuro, come chi si rassicura di un senso ritrovato.

Da El Tangauta

Milena Plebs: Ma a volte, coloro che iniziano a ballare, rischiano di perdersi tra tutte le molteplici opzioni.

Chicho: Sono già completamente persi! Io ho imparato con gli ultimi grandi milongueros. Ho preso le informazioni direttamente da loro stessi. Coloro che iniziano a ballare non hanno questa esperienza. Invece, imparano dalla generazione intermedia di cui faccio parte: siamo il legame tra i vecchi ballerini e i giovani. Il problema è che abbiamo sbagliato qualcosa nel nostro insegnamento e me ne assumo la totale responsabilità, così come dovrebbero fare altri miei colleghi. Non ho trasmesso ciò che ho imparato. Ero preso dalla follia della creatività, perché ho visto una nuova strada nell’evoluzione del tango. Mi sono buttato a capo fitto lì in mezzo e così ho perso la facoltà di trasmettere l’essenza del tango, malgrado l’avessi molto forte dentro di me. A causa di ciò, oggi, sento che ci sono molte persone che non capiscono o non sanno qual è la reale essenza di questa danza.

Milena Plebs: Balli da 15 anni. Quali cambiamenti hai notato nell’evoluzione di questa danza?

Chicho: Prima, la gente lavorava con precisione e con una estetica particolare, in maniera funzionale e meccanica che davano una forma e uno stile. Fare un movimento o un passo implicava una espressione di tutto il corpo. Adesso, non solo l’essenza è perduta, ma anche il peso della danza, la sua densità e la sua importanza. Per me questo nuovo tango è in qualche modo irrispettoso per ciò che è il tango.

Milena Plebs: Pensi che le persone che danzano automaticamente, ripetendo delle sequenze, potrebbero farlo in modo più interiorizzato?

Chicho: Una domanda del genere richiederebbe molte spiegazioni! Tu sai, perché sei un insegnante tu stessa, attualmente la pedagogia del tango è molto più decodificata rispetto a dieci anni fa ed è più facile imparare. Oggi vedi una volcada e una colgada e sono la stessa cosa, perché sono state “comprate” nello stesso pacchetto. Allora, tra fare un sandwichito o una volcada… la gente preferisce la volcada perché attira di più l’occhio. Nel tango le persone sono molto egocentriche ed individualiste. Non fanno un sandwichito per godere di quel momento, ma preferiscono eseguire qualche cosa che li metta più in risalto e in valore. Nel mondo musicale, Astor Piazzolla ha rotto con tutto, ma se lo ascolti è pur sempre tango. Oggi nella danza, molti pensano di essere dei Piazzolla, ma non lo sono. Vedo uomini e donne che sono unicamente preoccupati del modo in cui vengono guardati. È una situazione estremamente complicati perché dobbiamo confrontarci con la personalità e l’identità porteña.

Milena Plebs: Ma i milongueri delle altre epoche erano anche porteñi?

Chicho: Si, ma questi milongueros avevano rispetto, delicatezza e sensibilità. Era totalmente differente. Riconosco che il mio ruolo è contraddittorio perché anch’io ho contribuito a questa situazione avendo creato questa corrente. All’epoca ero stanco dei codici restrittivi dei milongueros che non corrispondevano ai miei tempi e, essendo ribelle, ho cercato di seguire il mio proprio cammino. Oggi sono tornato ad essere un milonguero (ride): sono contrario alle persone che non praticano il cabeceo, che non hanno codici o rispetto. Il valore del tango è stata diluita. È per questo motivo che affermo che molti ballerini sono perduti, stanno in piedi giusto per ballare e si muovono per due ore come degli zombie ed è molto triste a vedersi.